Il testo del Sanctus, che appare nitido e lineare, presenta però una difficoltà con l’espressione Deus Sabaoth. Ai fini della traduzione ci soccorrono poco le antiche anafore, che si limitano a traslitterare il termine ebraico Sabaoth senza proporne un’interpretazione. Al traduttore non resta che affrontare il problema dal punto di vista teologico, considerando i progressivi sviluppi apportati dall’eucologia.
Il congiungimento liturgico del Sanctus dei Serafini (cf Is 6, 3) con il Benedictus dei Cherubini (cf Ez 3, 12) è dovuto alla preghiera giudaica. Esso è attestato in primo luogo nella preghiera che precede lo Šema‘ Israel che si dice due volte al giorno, quando spunta il sole e quando tramonta. La tematica relativa al dono della luce spinge la comunità orante a contemplare la lode tributata a Dio dalle innumerevoli creature di luce che formano la corte celeste: mentre le creature astrali (sole, luna, stelle) lodano Dio dando luce alla terra, le creature angeliche (Serafini e Cherubini) lo lodano, cantando senza posa con voce personale e intelligente. Attraverso la proclamazione incessante della loro lode, gli Angeli si sottomettono al «giogo del regno dei cieli», ossia riconoscono la superiorità santa di Dio e la loro conseguente dipendenza relazionale. L’inno angelico viene recitato pure nella preghiera della Tefillà, che si pronuncia al mattino, a vespro e prima del riposo. Ivi si configura come la lode che unisce l’assemblea terrena all’assemblea celeste. Infatti l’assemblea di quaggiù, siccome a causa della sua condizione di esistenza frammentata nel tempo e nello spazio si sente inadeguata a lodare Dio come egli merita, si congiunge all’assemblea di lassù, perennemente assorta nella proclamazione sacrale della santità divina.
Ereditando l’impiego liturgico del Sanctus-Benedictus dal giudaismo, il cristianesimo l’ha inserito nella quasi totalità delle anafore e ha continuato ad esplorarne il significato teologico. È significativo constatare che un ulteriore arricchimento, prezioso per la piena comprensione della teologia del Sanctus, ci viene offerto proprio dall’anafora di san Giacomo, che è la preghiera eucaristica dell’antica Chiesa di Gerusalemme e per ciò stesso la più prossima alla tradizione giudaica. Oltre alla menzione della lode che Dio riceve dalle creature cosmiche («sole, luna e tutto il coro degli astri, ecc.») e dalle creature angeliche («Angeli, Arcangeli, ecc.»), ivi compare la menzione della «Gerusalemme celeste». Questa espressione indica coloro che, dopo essersi avvicendati quaggiù in mezzo a mille occupazioni e preoccupazioni, ora lassù non hanno altro da fare che cantare «con bocche che non cessano e con teologie che mai tacciono» l’inno della sottomissione creaturale a Dio. In tal modo la nostra momentanea debole lode riveste tutto il vigore della loro lode perenne. Su questa linea poi si è posta di recente la preghiera eucaristica zairese, apportando alla teologia del Sanctus quel tassello che ancora mancava. Anche se nell’introduzione al Sanctus dell’anafora di san Giacomo i Defunti erano già compresi nella menzione della Gerusalemme celeste, dobbiamo riconoscere che la loro presenza non era esplicitata attraverso il nome specifico che li contraddistingue. È dunque merito della liturgia zairese averli posti in evidenza proprio come «Defunti».
Dai testi biblici, riletti e arricchiti dalle eucologie giudaica e cristiana, risulta pertanto che Deus Sabaoth non è affatto una vaga espressione, per la cui interpretazione ci si può affidare alla sensibilità moderna. Qui è in gioco un Nome divino di sapore prettamente biblico-liturgico, la cui interpretazione non può prescindere dalle ricchezze teologiche dell’eucologia. Prescindere da queste comporta il rischio di una reale incomprensione della funzione teologica che l’inno angelico è chiamato a svolgere nel quadro della struttura anaforica.
Ma come rendere l’appellativo Deus Sabaoth?
La traduzione Dio dell’universo, finora adottata dal Messale Romano-Italiano sulla scorta della versione francese, è suggestiva, ma risulta del tutto inadeguata per l’espressione che stiamo considerando, perché riduce l’ampiezza del titolo divino alla sola evocazione del mondo cosmico.
La traduzione «Dio dell’universo» è corretta nelle due preghiere che oggi accompagnano la presentazione dei doni, perché rende esattamente l’espressione latina «Deus universi», modellata a sua volta sulla formula mèlek ha‘olàm [re del mondo/secolo] delle benedizioni giudaiche, dove il termine ‘olàm è comprensivo dell’universo spazio-temporale (cf C. Giraudo, La struttura letteraria della preghiera eucaristica. Saggio sulla genesi letteraria di una forma, Biblical Institute Press, Roma 1981, 203-205).
Se nella preghiera giudaica che si dice due volte al giorno, l’orante menziona la lode tributata a Dio dagli elementi di luce astrale, egli però si affretta a precisare che la porzione eminente della corte celeste sono «i Santi», ossia quelle creature di luce personale che sono gli Angeli, i soli in grado di proclamare la santità divina «con quiete di spirito, con labbra elette e con soavità santa».
Inoltre, limitandosi a evocare gli elementi cosmici, la traduzione Dio dell’universo prescinde dall’autorevole arricchimento apportato alla teologia del Sanctus dall’anafora di san Giacomo.
Forse si potrebbe dire Dio delle Schiere celesti o Dio dell’Assemblea celeste.
L’una o l’altra traduzione troverebbe appoggio nella formula «cumque omni militia cælestis exercitus» che figura nell’antica conduzione latina «Et ideo cum Angelis...».
Siccome questa formula, che peraltro rende bene la nozione di Schiere cultuali propria dell’ebraico Sabaoth, è stata tradotta «con l’assemblea degli Angeli e dei Santi», forse sarebbe il caso di prenderla in considerazione, per parlare appunto o di «Schiere celesti» o di «Assemblea celeste».
Questa traduzione, opportunamente spiegata, offrirebbe l’occasione per avviare mistagogie promettenti sulla teologia degli Angeli, dei Santi e dei Defunti.
In ogni caso ragioni teologiche e pastorali impongono di non dare per scontata l’opzione fatta nelle prime due edizioni del Messale Romano-Italiano, ma di riconsiderarla anche alla luce delle traduzioni adottate per altre lingue.
Queste riflessioni sul significato di Deus Sabaoth suggeriscono inoltre come dovrà essere, a conclusione del prefazio, un’appropriata conduzione del Sanctus.
Il redattore o il traduttore che si apprestano a formularla o a riformularla non dovranno aver timore dell’enumerazione tradizionale delle Schiere angeliche, le quali si sono viste spesso pudicamente e drasticamente ridotte nei nuovi prefazi romani.
Mentre diamo pieno assenso all’introduzione della formula «E noi... uniti... ai Santi...», non possiamo non lamentare la riduzione delle Schiere angeliche all’espressione «... uniti agli Angeli...».
Dalla tradizione abbiamo ereditato ben di più, ed è proprio questo “di più” che va fedelmente trasmesso.
Se vi è un ambito teologico dove l’angelologia è d’obbligo, questo è precisamente l’area del Sanctus. Senza una solida teologia degli Angeli e della Gerusalemme celeste, il Sanctus della preghiera eucaristica rimane incomprensibile.