Anche a noi peccatori, tuoi servi,
che speriamo nella moltitudine delle tue misericordie,
degnati di dare un posto nella comunità dei tuoi santi apostoli e martiri:
con Giovanni, Stefano, Mattia, Barnaba,
[Ignazio, Alessandro, Marcellino e Pietro,
Felicita, Perpetua, Agata, Lucia,
Agnese, Cecilia, Anastasia]
e con tutti i tuoi Santi:
ammettici – ti preghiamo – nella loro compagnia,
non soppesando il merito, ma accordando con larghezza il perdono,
per Cristo nostro Signore...
Il fatto che la variante del Sacramentarium Rossianum menzioni anche la componente femminile dell’assemblea («Nobis quoque peccatoribus famulis et famulabus tuis») conferma che il Nobis quoque non può essere inteso come un «memento» dei concelebranti per se stessi.
L’odierna traduzione italiana di «famuli» con «ministri» [ordinati] – ereditata dal Messale Romano-Italiano del 1965 e accolta nelle prime due edizioni tipiche – ha di fatto clericalizzato una intercessione di per sé aperta su tutta la componente ecclesiale. È vero che i «ministri» sono peccatori; ma anche gli altri non sono da meno. Un motivo in più per mantenere aperta l’intercessione!
La terminologia del servizio relazionale è una ricchezza del canone romano, e pertanto va mantenuta, in quanto è una tipica tematica biblica di alleanza.
Quando nel canone romano la terminologia del servizio (servitus, famuli) è in correlazione con termini che significano l’intero popolo (familia, plebs sancta), essa può essere tradotta con «ministri» (come nel caso dell’Hanc igitur e dell’Unde et memores).
Quando invece figura da sola (come qui nel Nobis quoque), la terminologia del servizio conserva tutta la sua apertura semantica, e pertanto non va tradotta con «ministri».