«È stato osservato che la coppia di termini “passato prossimo / passato remoto” non è adeguata, perché assume come elemento discriminante la collocazione più o meno vicina sull’asse temporale. È invece la maggiore o minore “attualità psicologica” dell’evento a determinare la scelta [...]. Particolarmente nel parlato, il prevalere del passato prossimo rispetto al passato remoto si giustifica con l’esigenza di avvicinare i fatti al momento della narrazione, con ragioni cioè di immediatezza espressiva» (DARDANO M. & TRIFONE P., La nuova grammatica della lingua italiana, Bologna 1997, 322).
La scelta tra i due tempi verbali, di cui dispone la lingua italiana per esprimere un evento del passato, più ancora che dalla lontananza cronologica, dipende dunque dall’atteggiamento con cui lo percepiamo, ovviamente a condizione che si distinguano bene i contesti specifici. Se la preoccupazione per l’attualità psicologica e l’immediatezza espressiva spiega bene la preferenza accordata oggi al passato prossimo nel quadro di un discorso profano, essa non legittima affatto una certa crescente disaffezione per il passato remoto nel contesto del discorso sacrale.
Una sistematica adozione del passato prossimo nei formulari liturgici, in nome della modernità del linguaggio, ne cortocircuita e vanifica inesorabilmente la profondità storica. Si tenga presente che la componente espressiva e psicologica gioca nei due sensi. Infatti, come può avvicinare la percezione di un evento passato, così la può anche allontanare, non già per negarne il rapporto con il presente, quanto piuttosto per oggettivarne meglio, sotto il profilo storico-salvifico, la memoria contemplativa.
Sorprende notare che, nel rendere i verbi storici del prefazio e del post-Sanctus, il traduttore italiano ha adottato nella quasi totalità dei casi il passato prossimo, e si è mostrato assai restio nei confronti del passato remoto. Con questo suo comportamento non certo casuale, egli ha creduto che, riducendo le distanze, si potesse coinvolgere meglio l’assemblea nell’evento che si celebra. Ma non si è accorto che la sua scelta, schiacciando al limite del possibile l’azione di grazie sul presente, ha finito per appiattirne la profondità storica, e cortocircuitare di conseguenza il vero momento presenziale, ovviamente a danno dell’anamnesi, della duplice epiclesi e delle intercessioni.
Di rimando, questa mancata attenzione alla profondità storica del formulario anaforico ha fatto sì che taluni prefazi mobili, come pure il prefazio di alcune nuove preghiere eucaristiche, sono stati indebitamente invasi – senza che i redattori se ne avvedessero – da polarizzazioni di tipo pneumatologico, ecclesiale ed escatologico, le quali appartengono propriamente all’oggi epicletico-intercessionale. Le esemplificazioni non mancano.
Per convincersene, basta dare un’occhiata al quarto prefazio del canone svizzero, quello che ha per titolo «La Chiesa in cammino verso l’unità»:
Collocata in questo preciso momento, la tematica del raduno ecclesiale costituisce un’anticipazione indebita di quanto, in maniera più appropriata, dovrebbe intervenire più oltre. Infatti, ponendoci a livello di logica letterario-teologica, ci possiamo domandare: se la Chiesa è presentata già nel prefazio come perfetta e radunata, allora che bisogno abbiamo ancora noi di radunarci nel momento cultuale per celebrare l’eucaristia? Oppure, in considerazione della celebrazione eucaristica già avviata, che bisogno abbiamo di procedere oltre, facendo intervenire gli elementi più impegnativi della preghiera eucaristica, che sono appunto il racconto, l’anamnesi, le due epiclesi e le intercessioni? Coerenti con la consapevolezza di essere già ciò che desideriamo, non avremmo che da sciogliere l’assemblea e tornare alle nostre case.
Per evitare di produrre formulazioni deboli, il redattore deve preoccuparsi di programmare gli sviluppi tematici alla luce della struttura che li regge.
A sua volta il traduttore, all’atto di trasporre nella lingua italiana la motivazione centrale dei prefazi e dei post-Sanctus redatti a dovere – e questi per fortuna non mancano –, non deve rifuggire dall’uso del passato remoto, di cui dispone la lingua di Dante. Esso è il tempo che meglio si addice alla celebrazione anamnetica di Dio che «operò» per noi così grandi prodigi.
Un bell’esempio di profondità storica è dato dal post-Sanctus della IV preghiera eucaristica, la cui proclamazione risulterebbe ancor più efficace se provassimo a leggere tutti i verbi storici al passato remoto, evitandone l’anomala alternanza attuale con il passato prossimo. Una traduzione attenta al testo latino suonerebbe press’a poco così:
A proposito del passato remoto non bisogna certo confondere o identificare la lingua parlata e la lingua scritta. Per esperienza tutti sanno che, mentre la lingua parlata dell’Italia settentrionale di fatto ignora il passato remoto che sostituisce sistematicamente con il passato prossimo, invece la lingua parlata dell’Italia centro-meridionale abusa del passato remoto, ricorrendovi sistematicamente in luogo del passato prossimo. Ma tutti sanno pure che nella lingua italiana scritta il passato remoto conosce un impiego preciso, in rapporto cioè alla storia «remota». Le regole che valgono per la lingua scritta, ossia per il linguaggio sostenuto, valgono pure per la lingua liturgica, che è lingua sacrale e pertanto lingua sostenuta. Non rispettando le esigenze del linguaggio, si finisce per impoverire, non solo le risorse della lingua letteraria, ma la realtà stessa del discorso cultuale.
Qualcuno potrebbe obiettare che il passato remoto, in quanto indica un’azione conclusa, prescinde dal suo eventuale rapporto con il presente e dice pertanto chiusura; invece il passato prossimo, proprio perché prolunga e proietta fino a noi gli effetti dell’azione, si apre sul presente.
A questa obiezione, indubbiamente valida a livello del narrato comune, si può rispondere che non tutte le azioni espresse dai verbi sono da porre sullo stesso piano. Esistono infatti azioni trascorse che non hanno più alcuna relazione con il nostro presente: si tratta perlopiù di azioni di poco o nessun peso. Vi sono invece altre azioni, che pur collocandosi in un passato a noi cronologicamente lontano, prolungano nel presente i loro effetti. Questi eventi del passato – nel caso specifico: gli eventi della storia salvifica – sono come le radici dell’albero. Più esse provengono da lontano, più nutrono la pianta, più si aprono sul suo presente.
In altri termini: il passato remoto dei testi eucologici non chiude affatto.
Se poi al letterato profano esso dà l’impressione di chiudere, il mistagogo lo rassicura, ricordandogli che la storia della salvezza passata non è mai trascorsa.
Allorché confessa il suo Signore, la Chiesa in preghiera non fa altro che rimemorare a lui quella storia di fedeltà misericordiosa che, continuando a gravitare con tutto il suo peso teologico sulle nostre vicende, è per noi garanzia della sua rinnovata fedeltà.